Pubblichiamo la relazione, ad opera di Elena Muscas, del libro “Democrazia: il dio che ha fallito” presente nella nostra biblioteca.
Il saggio “Democrazia: il dio che ha fallito” venne scritto dall’economista e filosofo politico tedesco Hans-Hermann Hoppe nel 2001. Questi è uno dei padri del pensiero libertario e anarco-capitalista che vede nell’eliminazione dello Stato la soluzione ottimale per la regolazione dei rapporti tra privati. Il filosofo vuole dimostrare, analizzando la storia del mondo occidentale, come l’avvento della democrazia, al contrario di come comunemente si pensi, abbia determinato un netto peggioramento della vita dell’uomo e del livello delle istituzioni..
“La democrazia, per Hoppe, non è che un dio che ha fallito non soltanto se la si considera dal punto di vista delle promesse teoriche che si sono mostrate irrealizzabili, ma anche se la si guarda dal punto di vista dei suoi risultati storici […]. Si tratta allora di un errore dal quale occorre quanto prima liberarsi non soltanto come ideale politico, ma anche come ideale di vita”. Secondo Hoppe è necessario ripensare all’intera filosofia occidentale, in quanto la teoria è sbagliata non solo nei suoi risultati, ma anche nelle sue premesse. L’idea stessa dello Stato è da considerarsi deleteria in quanto si privano i cittadini della possibilità di autodeterminarsi, di scegliere chi avere come vicino e si obbligano gli stessi a lavorare per mantenere l’esistenza dello Stato, contro la loro stessa volontà. “[…]se si deve avere uno Stato, definito come un’agenzia che esercita un monopolio territoriale coercitivo della giurisdizione e della tassazione, allora è economicamente ed eticamente vantaggioso scegliere la monarchia rispetto alla democrazia”. Rimane comunque il problema se uno stato sia necessario o non sia meglio trovare un’alternativa. Ogni monopolio è un male, poiché determina la gestione della res in capo a pochi e, di conseguenza, un cattivo utilizzo della stessa. Quindi la scelta fra monarchia e democrazia è comunque la scelta tra due sistemi di governo deficitari.
Hoppe, nell’introduzione, contrappone i due diversi sistemi governativi: la monarchia, incarnata dall’Impero austro-ungarico degli Asburgo da un lato; il sistema democratico-repubblicano degli Stati Uniti di Wilson dall’altro. Con la fine della Prima Guerra Mondiale si è verificato uno dei più grandi spartiacque della storia: si è passati da un sistema governativo di tipo prettamente monarchico, a una serie di repubbliche democratiche. Nei pochi paesi occidentali nei quali è rimasta la monarchia, vi sono comunque stati dei cambiamenti tali da determinare un completo esautoramento della sua funzione: il potere sostanziale è passato in capo a istituzioni votate dai cittadini. Hoppe, controcorrente rispetto al sentir comune, nota come l’iniziale trionfo del sistema repubblicano-democratico importato in Europa dagli Stati Uniti non abbia determinato ricchezza, da intendersi sia in senso materiale che intellettuale, ma abbia esclusivamente causato dapprima una forte stagnazione economica e di seguito una pesante crisi. In aggiunta “negli Stati Uniti, meno di un secolo di democrazia in tutto il suo splendore ha avuto come risultato una sempre maggiore degenerazione morale, disintegrazione sociale e delle famiglie, e declino culturale nella forma di tassi continuamente crescenti di divorzi, nascite illegittime, aborti e crimini. […] Lotte sociali, tensioni e ostilità razziali, etniche, morali e culturali sono aumentate drammaticamente”.
Al contrario, l’Austria degli Asburgo era sempre stata caratterizzata da una grande crescita, in particolar modo nel campo intellettuale e culturale.
Come poc’anzi evidenziato, Hoppe sostiene che sia da preferire un sistema di governo di tipo monarchico a un sistema democratico. Il motivo è da rinvenirsi nel fatto che il Re, dovendo governare fino alla morte e considerando il fatto che nella maggior parte dei casi il titolo monarchico è ereditario, sarà maggiormente portato a investire nel lungo termine. È noto che il monarca veniva scelto sulla base dei suoi natali. Anche se ciò non poteva considerarsi come una garanzia, è indubbio che la prassi dell’ereditarietà del potere faceva sì che si evitasse di sprecare risorse e si tendesse a cercare di mantenere la ricchezza, affinché la dinastia regnante potesse garantirsi prosperità anche nel futuro.
Viceversa, la democrazia, come è noto, vede il susseguirsi di politici “disonesti” interessati esclusivamente al proprio tornaconto personale e alla successiva rielezione.
Di conseguenza, tali politici investiranno esclusivamente nel breve termine, disinteressandosi alle conseguenze delle loro politiche nel lungo termine. Anzi, preferiranno favorire delle politiche volte a peggiorare la situazione per le future generazioni, andando a garantire un immediato beneficio per loro stessi e per i loro elettori.
Inoltre, il fatto che gli attuali governanti vengano scelti sulla base di elezioni popolari fa sì, ad avviso di Hoppe, che vengano eletti in misura maggiore individui gretti e privi di qualsiasi inibizione. “La democrazia garantisce in pratica che le leve del governo cadano nelle mani solo di individui incapaci e pericolosi, anzi, l’effetto della libera concorrenza politica e della libera scelta dei governanti fa sì che coloro i quali raggiungono i più alti livelli del potere diventino sempre più incompetenti e pericolosi […]”.
Inoltre, sostiene il filosofo, nella natura umana vi è la tendenza ad appropriarsi dei beni altrui. Nella forma di governo monarchico solo il monarca ha la possibilità di soddisfare il suo eventuale desiderio di appropriazione “indebita” dei beni altrui; ma nella pratica i suoi sudditi, considerando vergognoso e immorale tale desiderio, saranno portati a guardare in maniera sospetta ogni tentativo di sopruso. In un governo di stampo democratico, invece, considerando che chiunque può essere eletto e soprattutto il fatto che tendenzialmente saranno i più disonesti che vorranno accedere al potere, si verificheranno sistematici attacchi ai beni altrui.
Nessuno diritto di proprietà potrà dirsi esente da tali soprusi finalizzati alla redistribuzione.
Ne è un esempio lampante l’aggressione alla proprietà privata che viene perpetrata attraverso il sistema della tassazione.
Viene spontaneo chiedersi se effettivamente la tassa o l’imposta possano considerarsi legittime, specie se hanno come intento quello di garantire forme di sostegno al reddito per chi si trova ad essere incapace di produrlo per suo conto e, anzi, si sente legittimato a non produrne in quanto conscio di poter essere ampiamente foraggiato dallo Stato; “sovvenzionando le persone perché sono povere, ci sarà più povertà. […] Sovvenzionando gli scansafatiche, i nevrotici, i negligenti, gli alcolizzati, i drogati, i malati di Aids e i soggetti psicologicamente labili, attraverso regolamentazioni e assicurazione sanitaria obbligatoria, si avranno più malattie, pigrizia, nevrosi, imprevidenza, alcolismo, dipendenza dalla droga, infezioni da Aids, così come fragilità mentali.”
Inoltre sostiene Hoppe, e non si può che essere del medesimo avviso, da alcuni decenni i livelli di vita reale in Occidente si sono abbassati o comunque non crescono alla stessa velocità con cui crescevano durante il boom economico. Ad esso si aggiunga il fantasma di un’imminente bancarotta economica, dovuta principalmente a politiche spregiudicate che hanno esclusivamente aumentato il debito pubblico. Il problema è che, continuando per questa strada, lo Stato assistenzialista di stampo occidentale finirà per collassare; ma le cose non necessariamente migliorerebbero, anzi vi è il rischio che peggiorino. “Ciò che è necessario quando si verifica una crisi sono delle idee – idee giuste – e uomini capaci di comprenderle e di attuarle quando l’occasione si presenta. In ultima analisi, il corso della storia è determinato dalle idee, che queste siano giuste o sbagliate, e dagli uomini ai quali esse ispirano le azioni. Il disordine attuale è anche esso il prodotto delle idee. È il risultato di un’accettazione di massa, da parte dell’opinione pubblica, dell’idea della democrazia. Finché tale idea prevarrà, la catastrofe è inevitabile; e non c’è speranza di miglioramento neanche quando questa sarà avvenuta. Al contrario, non appena riconosceremo che l’idea democratica è falsa e perversa – e le idee, in linea di principio, possiamo cambiarle istantaneamente -, la catastrofe potrà essere evitata.” È quindi necessario delegittimare l’idea della democrazia, tenendo presente che tutti i grandi filosofi politici che nell’arco della storia hanno difeso tale forma di governo, la promuovevano esclusivamente nelle piccole comunità. In queste, infatti, “è molto più difficile far passare l’idea di saccheggiare gli altri e la loro proprietà a fini personali. Al contrario, in vasti territori comprendenti milioni o centinaia di milioni di persone, dove i candidati alla pratica del saccheggio non conoscono le loro vittime e viceversa, il desiderio umano di arricchirsi a spese degli altri non trova più alcuno ostacolo“. , Considerato il fatto che, sostiene Hoppe, il vero motore della ricchezza e della prosperità economica è la proprietà privata, la produzione e il libero scambio, è necessario che si venga a creare un’”anarchia della produzione”. Così facendo ognuno potrà scegliere quanto produrre, con chi commerciare, quanto conservare senza che nessuno possa sottrarre beni indebitamente o stabilire i modi e le quantità della produzione.
Un argomento estremamente divisorio è quello dell’emigrazione, che, come è noto, è fonte di acceso dibattito in campo politico in Italia e non solo. Hoppe ne dà una lettura interessante, sostenendo, anche in questo caso, che il problema si pone nel momento in cui vi è l’obbligo, per i cittadini, di accogliere chi emigra.
La situazione che sta vivendo il mondo occidentale si può configurare come un’integrazione forzata, finalizzata a concedere il voto a chiunque. “Il potere di ammettere o escludere dovrebbe essere strappato dalle mani del governo centrale e restituito a Stati, province, città, villaggi, quartieri e, in definitiva, ai proprietari privati e alle associazioni di proprietari”.
Così facendo si eviterebbero, secondo Hoppe, tutte quelle lotte sociali e quel malcontento causato dalla necessità di accogliere chiunque e in qualunque situazione. Mentre in passato i re stabilivano chi poteva entrare sulla base di rigidi requisiti volti a garantire l’accesso e la permanenza a coloro che si distinguevano positivamente, così da implementare la ricchezza corrente e futura del regno, attualmente vi è la tendenza ad accogliere qualsiasi persona, senza stabilire alcun tipo di criterio. Quindi “il meglio che si possa sperare nelle attuali condizioni, per quanto vada contro la “natura” stessa di una democrazia e quindi non abbia probabilità di attuarsi in pratica, è che i governanti democratici agiscano come se fossero i proprietari del paese e come se dovessero decidere chi ammettere e chi escludere dalle proprie case. Ciò significherebbe adottare una politica di rigidissima discriminazione a favore delle qualità umane desunte da capacità personali, carattere e compatibilità culturale”. E ancora, sostiene Hoppe, sarebbe necessario suddividere la popolazione in cittadini (immigrati naturalizzati) e residenti (privi di cittadinanza). Questi ultimi sarebbero privati di qualsiasi forma di assistenza da parte dello Stato.
Per potere ottenere lo stato di residente o la naturalizzazione, un cittadino del paese dovrebbe assicurare un indennizzo per eventuali danni causati dall’immigrato.
Inoltre questa politica esigerebbe che gli immigrati dimostrassero di avere, oltre alla conoscenza della lingua del paese ospitante, anche delle eccellenti doti intellettuali e un sistema di valori compatibile con quello della società.
Hoppe analizza anche il problema della sicurezza. Una delle argomentazioni più forti a favore della legittimità dello Stato è data dalla necessità di creare un apparato di sicurezza collettiva.
Tale idea troverebbe le sue radici nella filosofia di Hobbes: gli uomini non possono vivere nello stato di natura, perché si ucciderebbero a vicenda. È quindi necessaria la presenza dello Stato per garantire una pacifica convivenza.
In realtà, se questo fosse vero, l’uomo non sarebbe nemmeno stato in grado di cooperare per creare alcun tipo di comunità, ma, al contrario, la sua aggressività lo avrebbe portato all’estinzione. Lo Stato, nonostante ciò, legittima la sua esistenza su questa idea e, di conseguenza, si sente autorizzato a prelevare dai privati cittadini somme ingenti di denaro per foraggiare il sistema della sicurezza collettiva. In aggiunta, nel blando tentativo di garantire protezione emana leggi, regolamenti, delibere per decidere su ogni singolo aspetto della vita dei privati, creando una fortissima incertezza legislativa.
Una delle possibili soluzioni è quella di creare delle assicurazioni private che, attraverso dei contratti di protezione e sicurezza salvaguardino i cittadini.
Un sistema di assicuratori privati attenti ai profitti e alle perdite, che stipuli contratti le cui clausole non possano essere cambiate unilateralmente, andrebbe a minimizzare sia la spesa per la sicurezza che la quantità delle aggressioni e promuoverebbe un sistema di pace più duraturo.
Ma come si può fare in modo che lo Stato “sparisca”? La risposta che ci viene data da Hoppe è quella della non partecipazione: “se si vuole spogliare lo Stato dei suoi poteri e riportarlo alla condizione di organizzazione volontaria (com’era prima del 1861), non è necessario conquistare il potere, o rovesciarlo con la forza o anche semplicemente riuscire a mettere le mani su un governante. […] Viceversa, tutto quello che serve è decidere di ritirarsi dall’unione forzosa e riprendersi il diritto di auto-protezione. In effetti, è essenziale che la via prescelta sia solo quella della secessione pacifica e della non-cooperazione”. Tale pensiero, a primo acchito fuorviante, viene meglio spiegato più avanti, quando si legge che è sufficiente non partecipare più di quanto non sia strettamente necessario: pagare il minimo indispensabile di tasse, conservare il maggiore numero possibile di beni, ignorare le leggi “superflue”, non collaborare con lo Stato in alcun modo.
La Rivoluzione prospettata nelle pagine del saggio parte da un’élite liberale-libertaria che, conscia dei soprusi, riesca a svegliare la massa dal “sonno della sottomissione”, affinchè la secessione non rimanga una mera “non partecipazione” alla vita dello Stato, ma diventi un’attiva distruzione dello stesso. “Il mezzo più efficace per convincere le masse a non collaborare più con lo Stato consiste in un assiduo e instancabile sforzo di denunciare, sconsacrare e mettere alla berlina i poteri pubblici e le autorità, dimostrando che dal punto di vista morale ed economico si tratta di autentici impostori, trasformando lo Stato e i suoi rappresentanti in altrettanti re nudi, esposti alle beffe e al disprezzo dell’intera popolazione”.
Il punto di vista del filosofo è sicuramente estremamente controcorrente e a primo acchito non condivisibile, in quanto è indubbio che l’Occidente, abituato a filosofie e politiche intrise di pensiero democratico-repubblicano, sia estremamente restio ad abbandonare forme di potere democratiche a favore di un ritorno alla monarchia.
Maggiormente si è restii di fronte all’idea di “inventare” una nuova forma di governo che in pratica consista in un’assenza dello stesso, lasciando i privati liberi, in una sorta di anarchia.
L’analisi di Hoppe è però indubbiamente corretta e apprezzabile in svariati argomenti. In aggiunta si individuano correttamente tutti quelli che sono i punti maggiormente critici della democrazia, come ad esempio: l’assenza di meritocrazia, lo spreco di risorse, l’eccessiva regolamentazione di qualsiasi aspetto della vita dei cives, immigrazione indiscriminata.
Come è noto, questi sono i maggiori problemi che attualmente sono discussi a livello politico e dall’opinione pubblica.
È quindi evidente come l’analisi di Hoppe sia in realtà corretta e dimostri che la deriva della democrazia era in realtà prevedibile già all’inizio del Millennio.
Resta però invariata la domanda che sorge spontanea nella lettura del saggio: sul serio è possibile prevedere altre forme di governo o non governo capaci di ovviare e risolvere tali problemi? Vero è che Hoppe offre spunti molto interessanti, ma rebus sic stantibus, impraticabili.
Sarebbe indubbiamente auspicabile procedere nel senso di eliminare quanto più possibile la presenza dello Stato.
Tale cambiamento non sarà però possibile in assenza di una radicale rivoluzione ed evoluzione in senso sociologico, che renda attuabile una corretta e pacifica convivenza tra le persone.
Purtroppo, allo stato, ad avviso di chi legge, è assolutamente improbabile che si verifichi tale cambiamento, anche a causa dell’evidente “imbarbarimento” della popolazione.
“Chiaramente, la civiltà occidentale da tempo è sulla strada dell’autodistruzione. Può questo percorso essere fermato e, se sì, come? Vorrei poter essere ottimista, ma non so se vi siano sufficienti ragioni per l’ottimismo. Intendiamoci: il corso della storia è in ultima analisi determinato dalle idee, e le idee possono, in linea teorica, cambiare nello spazio di un secondo. Ma affinché le idee cambino, non basta che la gente veda che qualcosa è sbagliato. Cioè, si devono comprendere i principi basilari sui quali poggia la società […] e gli uomini devono avere una forza di volontà sufficiente per agire d’accordo con questa intuizione. Ma è proprio per questo che si è portati al dubbio. La civiltà e la cultura hanno una base genetica (biologica). Tuttavia, come risultato dello statalismo la qualità genetica della popolazione è quasi certamente peggiorata. Come avrebbe potuto non essere così quando il successo viene costantemente punito e il fallimento costantemente premiato? […] Comunque, anche se tutto ciò non ci dà grandi speranze per il futuro, non è tutto perduto. Rimangono ancora alcune sacche di civilizzazione e cultura. Non nelle città e nelle aree metropolitane, ma nelle campagne. Per preservarle, alcuni requisiti devono essere soddisfatti: il monopolio stata (della giustizia) deve essere riconosciuto come fonte della decivilizzazione; gli Stati non creano legge e ordine, li distruggono. Le famiglie devono essere riconosciute come le fonti della civilizzazione. […] La segregazione spaziale volontaria, e la discriminazione volontaria, debbono essere riconosciute come cose non negative ma positive che facilitano la cooperazione pacifica tra diversi gruppi etnici e razziali. Il benessere deve essere riconosciuto come una faccenda di pertinenza delle famiglie e delle associazioni caritatevoli volontarie, e i sussidi statali come nient’altro che un finanziamento dell’irresponsabilità”.
In conclusione, pur non condividendo appieno quanto letto nel saggio, la lettura offre svariati spunti di riflessione, in questa sede appena accennati.
Ad avviso di chi scrive, l’attuale situazione economica che sta attraversando l’Occidente, acuita dalla pandemia, potrebbe dimostrarsi un ottimo punto di partenza per modificare quelli che sono i maggiori problemi della democrazia, tenendo presente che quanto scritto da Hoppe potrebbe essere utile per cancellare quelle che sono le maggiori storture e i più evidenti difetti.